ANGELO DI MARIO

POESIE

 

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Tredici LIBRI DI POESIA editi


Da AURORA, Milano, 1959 (31 poesie)
AURORA

Rammendi le frange
cupe con fili d’oro
al tuo segreto apparire
sugli orizzonti supini
a ravvolgere i neri fustagni
in veli d’ombre e di nebbie.
Tu il glorioso trionfo precedi,
araldo azzurro, sospeso
alle corde di mille flauti
rischiarando le attese
che turbarono d’incubi i sogni,
di tumidi dissapori
compressi nel cuore in fiamme.
Mentre a briglie disciolte
i cavalli s’impennano a voli
d’oro pei greppi erbosi,
la resurrezione degli attimi
ci travolge nel giorno:
semenza sparsa su bivi.

A NOTTE

Fruscian le foglie leggere
come la risacca del mare.
Quietamente la luna traspare
dai rami del bosco;
e in gocciole tenui
oscilla sull’erba,
sulle esili dita
di steli;
versando corone di perle
entro liquidi rivi
che ridono rumorosi,
come labbra di donne felici.
Remote le rane
lontane
gracidano, nascoste nel limo;
e le lucciole guardano
ov’è notte
per romperne
i crudeli legami,
intrecciando alle cose
serti di lucide gemme
nel riposo che culla
la vita nel sogno.
Poi sotto il velo
della luna
si trascolorano
i roseti
molli,
i serpilli
irti,
le profonde ombre
del bosco,
le tacite membra
della terra
che ha pace.
E nel cuore tacciono,
sospese
all’assorto lume,
le angosce
del giorno
che il sole
maturò invano
tra i cespi
della vita
morente ogni sera
nel cuore dell’uomo.

MARE

Sono le tue alghe, mare,
che ti fanno terrestre;
sono i guizzi che turbano
la pupilla celeste,
e le vele gonfie d’aria
che oscillano lietamente
sul brillio dei sorrisi
ch’esprimi nel saluto serale;
ma tu sei come il passato: puro;
ci appartieni come
il brivido del ricordo
che ci pervade;
la giovinezza che ha il tuo colore
e ci sorprende;
il morire che suscita il muto
vagare delle cose;
e se piangi turbato,
ti laceri come le ferite
che sono nel passato.

L’EMIGRANTE

Il tuo occhio blu,
acqua, ribolle d’ira.
Il pietrisco cangiante
la sirena puntuta
sulla rotta delle groppe liquide;
la nave
sventolare di cenci amari
come festoni di lacrime
alle croci dei sepolcri;
terre lontane
oltre l’asprigno odore
il salso baluginare;
praterie di buoi
mandrie opulente
comignoli pacifici
il mare.
Illusione.
O patrie acque, io ritorno
a giocare con il pietrisco.
E potrò non essere solo.

SOCIETA’

Invetriate che sfolgorano
i geni, come nel vespero;
imitazioni di barbagli vacui;
se si gira l’imposta
ogni nesso vi sfuma
in scomposte vestaglie,
in smaglianti trafori
di maliosi argenti ed ori,
in pennacchi impalati
nei grigiori feudali
nelle sale affollate
di saggi impomatati.
E i Paladini d’Orlando
nell’eroiche schermaglie
coi sacri Comandamenti
sfogliano la morale
dai grani dei rosari
detti balbettando all’amata
amica che provoca a lato;
al loro prossimo che si sdegna,
ignaro, e lo consolano
per averlo derubato.
E tu sei ripudiato
solo perché hai osato
guardare dietro la cera
impiastrata sui loro visi;
perché hai snaturato
la filosofia baccanale
scritta sulle carte da mille
su quattro parole straniere
su un verso detto mille e mille
sul rossetto scarlatto
sul seno succinto
che vale più d’un trattato.
E se, imprudente, hai profferta
la lorda ingiuria: “Noi siamo…”,
affollati sarcasmi han raggelato
nell’indurito tuo aspetto
la libertà dolorante
proclamata per sortire
la via da prediligere.
Alcun valore ti giova
se hai fede nell’umanità feconda;
ma se, bugiardo, candido
predichi, mentre
raccogli dolcemente l’altrui frutti,
sei un ministro dell’altare
dove la Società implora
le vittime che rinnega.
I privilegi decapitati
che, come amuleti, si lega
sotto le nauseabonde promesse
di devota mansuetudine.
Così la creazione calpesta
poiché è vile riflesso:
sfavilla un attimo, gira,
s’immonda nella sua gora,
e, serva di tutte le fedi,
sventola ogni bandiera,
vile bacia ogni croce;
mentre t’uccide, prega.

DOV’E’

Lo zirlio cheto del fuoco;
la pioggerellina che adagio
e lieve sui monti
novelli si adagia
lieve; l’uccello
ch’improvvisa un sussurro…
Dov’è, dov’è che si libera?
Essenziale come il tuo murmure,
o primavera, per getti
teneri di corde aulenti
gioite dai nostri sensi
oltre l’ingombro delle parole.
Or la pioggerella si stempera
sulle oasi verdi, inverdendo,
e picchia sulle gote stormenti
sul leggero crepitio delle tegole
sull’anima lucente
che non ha più parole
tanto sale verso le nuvole
come un dolce soffio ridente.

SILENZIOSO SQUALLORE

Dov’è il picchio ingordo, sul tronco
aggrappato, fisso sopra
il buco, che con sodi
colpi iteratamente
scolpia per trar la preda?
E dov’è il presto aereo
rondone stridulo in voli
sghembi nel tiepido
letificare del vespero estivo?
La stanza è muta. Fuori
cauta guardinga a passo
di notte la neve tristissima
incatena ogni moto, ogni suono.
E l’irascibile vento
é chetato,
e la gronda
é immota
tra denti di ghiaccio.
Ora solo il respiro
denso volteggia
per confortarci che il cuore
tremola su infinito
silenzioso squallore.

INFANZIA

L’altalena, la corda, il rimpiattino,
prove di membra sode,
frullio di gambe come
leggere ale nell’aria.
E il cocomero tutto rosso
che ti pesava, il cacio
sbirciato nella dispensa,
le farfalle agili
tocche e prese
con le pupille a festa spalancate:
questi erano i segni
che hai lasciati, che tu
eri felice, quando
il martirio ti raggiunse
e ti rapì ogni cosa
nell’aureola incantata
dipinta intorno ai cigli.
E mai nella fratta breccia tu
sollevare la polvere: ogni cosa
che declina senza aver pace.

GINESTRA

Umile ginestra, fregiata
di qualche rara foglia di quercia,
erroneamente irretita
nei tuoi rami che ha mordicchiati una capra,
indovino dal sibilo: vuoi
che mi fermi e ti ammiri.
Ma lo sterpo che hai nei piedi,
il mingherlino tuo stelo
nano, le mozze
pieghevoli dita
non m’ingannano: sei
proprio come t’ho chiamata,
né puoi pascerti di cose morte
che l’albero rigetta,
che il vento trascina
come ogni cosa vana.
Aspetta.
Mi fermerò se l’usignolo
frulli vivace a festa
per invitare i tuoi fiori a prorompere
nella giovinezza del sole.

Da POESIE, Milano, 1960 (40 poesie)

A GIUGNO

Come violacciocche di fiamma
nei giardini dei meriggi
sul biondo grano si assiepa
un fuoco molle di giunchi.
Le rose di cielo si sfogliano
su fusi d’oro vividi,
picchiano i picchi berilli
d’acque che gorgogliano
come un isciacquio di gondole
sopra gli argenti del mare.
Coi tuoi ruscelli di biade,
musica amabile,
desto
la gioia dell’alveare.
Ronzan le corde i mille
nidi d’ape alianti
sul baccanale di giugno;
e a dorsi nudi ora gli uomini
in religiosa raccolta
ascoltano un fremito d’ale
su per gli amici germogli.

CREPUSCOLI

Verdeggianti pasture alla riva
di seminagioni spontanee
lambite a riflessi cerulei
dai queruli flutti bruenti.
Crepuscoli di seta
pianissimo distesi
sul piano immenso, sparso
di rare cose, sole
di uomini muti,
duri, muti,
dagli occhi grinzosi e seri.
Com’è infinita la paura
che s’annera, s’accende, e
s’annera, si tende!
Or sulle verdeggianti pasture,
sui muri, sugli uomini seri
s’ammanta la sera.

BREVI ORE

Le mareggiate s’orlano
di trine biancoazzurre
che i gabbiani han tramato
dai bioccoli di nebbie.
Galleggiano le concave conchiglie
di cielo con nel grembo
anemoni e pervinche.

Un bimbo sguazza, un altro
pesca, intento
all’esca, prone
intensamente all’onda.
Sgrana gli occhi ogni volta
giochi l’acqua su un ciottolo.
E scuote, stratta, avvolta
nuov’esca.

Maliarde albeggiano le brevi ore
che guizzano in trine biancoazzurre.


UNIONE

Trasalì ingordo al collo
il mio rosso sorriso
e di soppiatto avvampò lungo le carni.
I raggi accesero i germi all’erta
e nei liquidi specchi nodi rosei si avvinsero.
Tu gaietta alla polpa succinti
sguardi riluttavi schermando
poiché i due grappoli acerbi
non s’aveano scambiati gli anelli.
Ma proprio allora a ciocche di vampe
annodavan la nuca;
e tutte le api del mondo sciamavano
a estasiare i tuoi seni di polline.

VESPERO

Luce fioca di navate
sull’arabesco dei pettirossi
articolata dai gigli
dei bianchi colli in preghiera.
Pareva scrosciante fontana
coi lustri angeli intorno
come di quelli dipinti
dai tepidi arcobaleni.
E quando da ritmiche dita
frusciaron le vesti di seta
delle farfalle, i lor cigli
si strinsero al rosso di sera;
e un’infinita pianura
di stelle e mari vibranti
sommerse le antiche navate
nel fuoco di templi di luce.

SGOMENTO

Perché lo sgomento dei secoli
dissepolto dal vento,
perché si affanna, immense
bocche cave, sui muri
agitando reliquie
di macerie d’ombre;
perché si flette in lame
violente, color d’acciaio,
brividi di metallo
sul terrore di sangue;
perché l’assedio invisibile
strema l’insaziabile sete,
ecco, tremiamo all’urto
del giorno che affonda
nel dedalo d’ombra
appostato dietro il tramonto.

E l’opere degli uomini ergersi
spettrali nella lotta
nemica, in un groviglio di siepi
di mani, d’occhi e di membra.

CONVOLVOLO

L’amoroso convolvolo,
breve:
snelli abbracci di piaceri
sottili;
sillabe a mezza voce
sospirate ai respiri
gentili dei raggi di luna.

Non puoi dire come sia lieve
il suo esistere
il suo circuire
lento il ramo;
grato ricamo
ambizioso di luce.
E nel suo piano salire
quanta forza, che gioia!
Ma son cose che non sai ridire.

CESPI GEMMEI

Vetrine di corallo,
cespi gemmei,
guarnita torta di miele;
chiome vergini al caldo
invito di tocchi languidi;
culla che ci raccoglie
amabile e ci dondola.
In voi, sì, mi diletto
(fedeli, pronti) in coro
stormendo la nostra lode
con corde verdi pei gai
succhi che ci serve la terra.
E trasaliamo al rombo
infelice ch’inghiotte
strada bianca con occhi
vitrei cadendo
in precipizi di lampi.

LE ORE

Randage le ore
ululan sugli avelli
delle case notturne,
ghermendo le imposte perché tu ti svegli.
E s’accalcano ed ansimano
mugolando le predatrici
da le scabre radici
smanie di rami in croce
inalberati come sacrifici
dalle dolenti mani
dell’uomo che in quei gesti si rivive.
Altrettanti per forre
inabili, a miriadi, silenziosi
s’infrangono spiriti spaventosi:
tortura di valanghe e singulti
contro gli aguzzi ghiaccioli
premuti sui cuori nudi.
E quando soffocano: affanni
di polveri di millenni
si prostrano in silenzi eterni
intorno alle oscure dimore.

Da VIOLINO GIALLO, Parma, 1966 (148 poesie)

MAZZOLINI DI ECHI

Il vento è pieno
di parole senza labbra
che fossili di tempo
cullano nel suo azzurro.

Quando sibila, apre
brune frane nel petto
per gettarvi gli scheletri
di silenzio senza labbra.

Voglio andare in disparte
dov’è il vento morto
per osservare da presso
la sua fenice di cenere;

voglio vederlo nascere
dalle foglie schive
proprio quando incomincia
ad ascoltar le parole;

e gaio ancora di musica
fa mazzolini di echi
da regalare all’acqua
che si specchia canticchiando;

ma quando cade in ginocchio
sotto il dolore livido,
e poi si lancia all’aperto
con le spade di silenzio,

chiederò alle pietre lagrime
di durissima indifferenza
per non udire lo strazio
del fosco azzurro dei venti.


NON E’ UN GIUNCO

Non è un giunco la strada
o un nastrino di ciliegi
che ondeggi sopra i fianchi
della terra vergine.

La strada è un viandante
che tende agguati al giorno;
una donna che vende
la sua bocca notturna;

e quando s’assottiglia
diventa un coltellino
che minaccia la notte
se lascia uscire la luna.

Non bisogna fidarsi
del suo molle ancheggiare:
infallibile ti conduce
dove incomincia la morte.

ALBERINI SONORI

Non s’appaga la musica
di salire in vetta
del dolore aperto,
di raccogliere piazze
di gelato spavento,
o salvare amori
rotolati nelle fogne
della morte impassibile;
essa ruba stelle
a meduse di spazio
per alberini sonori
che brillano nella notte;
si nasconde nel mare
per vedere salire
gli oscuri pesci del fondo
che mordono trasparenze;
ma quando titubando
i fortilizi dell’uomo
sconvolge con le sue corde,
le strette labbra del gelo
le tende su archi d’amore,
che vanno da un cuore all’altro
come i voli materni.

BERSAGLIO DI NEVE

- Dove sei?
- Nella piega grigia
della tua ira.
- E dove attende la spada
il suo bersaglio di neve?
Nella vita.

SABBIA

I gigli delle mani aggrinza
l’airone azzurro del freddo;
le lancette vi scalfiscono
solchi di vento e nebbia.

La pergamena del volto
il pianto di sangue colpisce
ricavando dalla roccia
taglienti cristalli d’oblio.

Non un legno d’antiche selve
si compone nelle tue acque,
né gli uccelli migratori
tracciano rotte verdi.

Dal picco del labbro precipitano
i viscidi sogni; le anguste
lumache dei tuoi pensieri
decadono nei tuoi stagni.

II

Il limone di ponente e l’alba:
la reticenza che schiuma rabbia,
e intride sudicia le tue labbra,
e mostra il nudo di spossatezza
sulla sabbia, sulla sabbia.

La diuturna spelonca del volto
offuscato dai morti occhi;
e la luna coi denti bianchi
che vi scava tombe d’oblio.

III

Non eri alta un palmo, affossata
nell’utero, matrice consunta,
che il grido sgomento atterriva
con assalti di torrida attesa.

Attendeva, sicuro, pianure
di silenzio e radici di neve,
attendeva tremando il tuo inverno
aggrappato a farfalle di cenere.

IV

Era lungo la riva del nulla
la tua orma, marcito stelo,
sollecita di disperdersi, ma
il segugio del mio dolore
sempre dietro, pazzo d’ombra,
nella pampa del tuo squallore
ti gridava donna: tu
eri un’orma, matrice consunta.

LA NOSTRA STORIA

Durava allora efficace e serena
la nostra storia, andava
risorta sempre sulla folla varia
del volo spiccato intorno al nido.
Cominciava frivola, celia o ala,
la bocca iridata, perfetto asilo
di chiaro gioco e memoria;
poi seguiva vivida, ondante collana
alla risacca del riso,
e non finiva, ricominciava.

VIOLINO GIALLO

Il violino giallo
cade piangendo nell’acqua.
Le fanciulle come brillano
stupite d’amore e labbra.
Un tremito giallo
chiede fiori distrutti.
Le fanciulle ora offrono
seni colmi di perle.
Come materne lacrime
si commuove la rossa acqua.
La notte imperversa da fiumi
straripati di nostalgia.
Il tremito si spegne
negli occhi delle fanciulle.
Tentano antichi accordi
disfatti plettri gialli.

NOTTURNA APE D’ORO

Io ero disceso
calato nel tuo fiore
nei meandri dei favi d’ombra
piano solare invisibile.
La tua notte il mio asilo,
notturna ape d’oro,
e stillavo il tuo miele, disteso
sul mio placato dolore.
Incontro, ciò è semplice;
unione, ciò è semplice;
ma…
Io ero disceso
nei meandri del tuo fiore,
notturna ape d’oro,
mai sazio; ed ero
felice sul mio dolore.

CICALA DI RAMO

Adagiata sul mio cuore,
cicala di ramo e vino,
muori;
per diventare germoglio
d’oro, anima,
muori.
E alla mia gola d’uccello
trilli, canto d’acqua,
che ti tengo sospesa
a un filo di meraviglia.

PRIMAVERA SCONVOLTA

Il tessuto di anemoni sfiora
ossute vette, vagola
con ricami di foglie.
Rumorose cascate allettano
svolazzi di felci aeree
pendule da nastri molli
d’arborei sorrisi silvestri.
Freschi tremiti cuciono
leggere brezze d’oro
sulle tenere gemme primule.
Il cucù borbotta sempre
la melanconia di settembre
ancorché spiri favonio,
perché s’illanguidisce ai ramelli
nella ricerca astuta
di una calda culla amica.
Ed è così flessibile, tutta
pungente d’attese la valle,
che non si può resistere
ad ascoltare la fretta
della primavera sconvolta.
Ci si strugge di nidi
covati dentro gli occhi
come i balocchi antichi
degli altri, come
le corolle dei mesi
sfioriti, come
le adolescenze irìdi
travolte, ieri, dai miti.

LA PAROLA ALTA E MUTA, Bologna, 1967 (48 poesie)

I

Un’angoscia di nebbie e argento
per la brina delle foglie
insinua l’ombra sempre.

La macchina emigra dolente
da un ramo all’altro del mondo
senza fonte o germoglio
o bussola che la trattenga.

L’uomo corre assetato
per i deserti dell’acqua,
dentro gli trema un uccello
di tristezza e d’eterno.

II

La pioggia di grigio
trattiene nella sua bocca
l’arcobaleno.

Sonnolenta di bambagia
e riflessi contratti
lascia i suoi fiori appassiti
alle chiocciole febbrili
dei secchi sorsi dell’acqua.

Lascia il suo puro disfarsi
ai lunghi steli del legno
ed alle bocche sonore
che contano i passi dell’alba.

La pioggia di grigio
a un tratto alza sui campi
l’arcobaleno.

V

Andando simile alla foglia
sull’instabile equilibrio
delle uguaglianze diseguali
pensavo (gli uomini pensano) non come
la retta che distorce l’immagine,
né l’uno e il tutto che combaciano elisi,
pensavo come l’uomo che pensa:
“Sì” di tutto, “No” di nulla, perché
in ciò che si è, s’ha da credere.

VII

La luna del ramo
con insolita accortezza
sorseggia il cristallo amorevole
del gorgheggio.

Ogni tanto si sofferma
la luna del ramo
per capire l’indicibile
sofferenza del gorgheggio.

XVIII

La tua rosa insanguinata
s’alimenta nella notte
con tamburi di rigida pena
nella spelonca del gemito.

Spade di cielo trafitto
dilacerano grumi di musica,
le loro bocche bruciate
rose di sangue reclamano.

XXII

Sul cielo
ai piedi dell’acqua
pianamente intatta
fragorosa in riva all’alga
succede che arrivi calda
e favolosa
l’arpa
dei canneti di sera appena mossi
dal fulvo tremito d’agosto
(cielo attento)
e si consumi d’impossibile tristezza
(cielo adorno)
tra gli amanti arresi al dolce
blu tenue,
battigia
del sogno, fresco.
Così ardimento
e l’ape regina
che non vuole, dimena l’ansia e l’alga,
non vuole, ma scherza.
Dentro il fiato d’agosto
scintillano i baci
dai canneti dell’arpa
che beve il mosto
dell’ombra furtiva
scapigliata e serena.

XXIII

Dal fondo della valle
intensamente il verde
scopre la sua nudità;
tranquilla all’occhio rapido
arriva la sfida; un uomo
si misura, sa;
ed è roccia espressiva.
Per questo consulta l’orologio
senza un ghigno, e brucia
la storia, la nuvola che esita
sul calore, il fiume che porta
i suoi morti uccelli
nell’oceano distruttibile.
Per questo raccoglie la sfida
tranquillo;
ed è pietra.

XL

Può passare un uomo
e non riconoscerlo,
può chiedervi il nome di una donna
e non ricordarlo;
potete sentirvi estranei
come fratelli.

XLI

In qualche luogo;
al di sotto delle tue vibrazioni
nel vento irsuto che biascica
la mota, e si assalta
appartato di bitume;
sotto, od altro;
qua e là nel flutto
aprico e sofferto
teneramente concepito
attratto nel guscio incompreso
che si spazia attento contiguo
inavvertito, nel ferro che inonda
l’erba; qua e là, concepito
detto rifiutato nero
senz’altro preso nel profilo
e limato a rocce di nebbie
fino a nebbia, e odio e sollievo
di linfa, svanita fino all’aria;
qua e là diseredata
senza infima attesa o bruma
o verbo gridato dallo scoglio
delle tue vibrazione accecate;
così al di là o sotto od altro,
fin dentro la sofferenza lontana
dove cuspidi d’inedia arroventano
teneramente concepita
la linfa svanita fino all’aria
con tutti i morti lugubri
che son aria e vento e sabbia,
dimenticata.

Da I GIORNI SONO LE PIAZZE, Bologna, 1971 (20 poesie)

2

dove mi desti l’arancia
spiccò l’anello nudo
stava l’ombra con la sabbia
il cane miserabile tirava le zampe
dell’obbedienza
il leone si azzuffava

l’erba secca della gola
c’era la savana
dico che brillava
dalla bocca la mente il fiore
stava profonda la ferita
la sicilia guardava
un cerchio girava senza rotture

“tutto era”

lo giuro

3

dirai che è sporco o tenero
lascivo

puoi dirlo
perché quando s’alza la luna
e morde i lunghi capelli della notte
io sto lì ritto
a soffrire nel tronco taciturno
il calore del freddo
l’atmosfera pallida
due potrebbero amarsi
dentro le foglie
suonano le parole mai dette
l’aria ingoia la lancia
dei rumori

“siamo soli”

5

io e lui
l’operaio
discorrevamo che il tempo mena
che da secoli c’è il tempo

“lo sapevamo”
però è diverso dirlo
sentirselo
scivolar freddo
si rideva duro sulla falce
(anch’io per un tratto)
e parlavamo delle mani
le stesse mani
gli stessi bambini
la stessa moglie
LE MANI
I BAMBINI
LA MOGLIE
il tempo freddo
sotto la brace dell’estate
stavamo lì come calli alle mani
pieni di umiliazione

parlavamo del tempo
che non muta mai
così fermi sulle falci

non si tratta di verso
cosa ci vuole cosa volete ci voglia

è la brina rigida
la lacuna
la parola troncata

“dilla!”


7

m’infervoro facilmente
con mestizia il fuoco può lambirmi
irridermi di avermi travolto
tra gli arbusti recisi
dei ricordi
posso anche andare molto lontano
per i fiumi che si battono tra le rocce
le finestre che si aprono per mordersi il volto
e le strade così tante
che fanno spavento

non pare ma l’uomo ha potuto tanto
e straripa senza indulgenza
nella sua debolezza
delle piccole sponde
del suo nero pianto

da qui forse il mio guardarmi
molteplice d’acqua
la parola assolta
priva di tempo ormai

8

oggi portavano un morto
una striscia nera
il sole cancellava una storia
i bimbi saltavano
non debbono sapere
e dai campi veniva il chiaro
affermarsi del vento
che schiariva i volti
fino a velarne l’effigie

ogni uomo camminava
sulla sua strada di fanciullo
troppo stretta la strada
disperso ogni sforzo
di imboccare la via
quando per la strada
una scia troppo nera
ti riporta
ai tempi che non consumasti
ai salti non spiccati
a quei pugni sonori
che facevano ridere
ogni strada è tua
non la devi lasciare
isolata
trafugarla nelle fosse
vergognarti di averla calpestata
ricorda il senso che passa
sul fango tangibile
le tue spalle curve
la gola secca
la parola che non serve
il tuo amico che chiamavi sempre
ch’era sempre
lontano dalla voce
e tu dalla cima cercavi l’ombra
e c’era
invece la pesta o il passo o il tocco irrisorio del segno

e c’era che tu non trovavi la voce
per chiamare
tanto alta la cima
che altro c’era da fare che ridere
da soli a soli
della cima

9

sapore di gengive
d’alga - sale
odore di ragazza
ha ondeggiato

ti sei mosso
come un ramo
era tua
lungo l’arenile correvi a braccia spiegate
per prendere tutto il vento che ti bastasse a sorridere

da crescere alto fino alla sua corsa
raggiunta
avete riso nell’aria

11

il martello del silenzio
ascolta
ascolta il martello del silenzio
si fa avanti
attacca infuriato
il campo aperto

la smorfia di disgusto ti torce
non puoi gustare il silenzio
coi suoi colpi alla bocca
con parole rafferme di sudore
con messi legate

il martello

dammi la dura materia
che t’apra
rammenta il giorno che parlavo/ parlavo
rammenta il giorno che parlavo/ parlavo

rammenta

13

io ero
apparecchiato
per il festino
ero disabitato
nel pugno emergevano i pugni
delle amicizie
la bocca colma di grazie

tutti distinti
e bene ridevano
gli uomini
neri
intorno alla mensa
e bevevano dai pori
ciò che mai può dirsi
vedevano ciò che non può vedersi
ma lo sappiamo siamo noi
anche se la roccia ci barrica
la tristezza senza rifugio

nel ridere sei felice tutto bene grazie
gli uomini sono felici capaci intorno a una mensa
di non dire cose sgradevoli e mangiare e ridere
ridere
senza parlare

21

è il tempo duro
delle somme e delle distanze
la pietà si curva su noi
come madre oscura
l’uomo tace ha sete beve lunghi dolori

non può più misurarsi
né alzare la vita
né specchiarsi nel cielo
né battersi il petto
o chiamare il fratello
e trovare parole
che si dicevano

è il tempo carico di rimorsi
delle lunghe strade senza rumore
dei boschi che hanno alberi rigidi
delle case d’aria grandi d’aria
con le gocce che s’allungano fino all’alba

e gli uomini fermi sopra le soglie di pietra
davanti ai tempi così estesi di misura ed anni
che il cielo accade appena e l’uomo va via

e la parola si cheta nella chiusa meraviglia


Da PROIEZIONE FOSSILE, Cosenza, 1972 (32 poesie)


BIMBI CELESTI

Sui verdi rami dell’acqua
sognano labili bimbi:
quando scorgono ragazze
sfuggire anelli di fiamma
e i giovanotti inseguirle
con cinture di corallo,
dall’uliveto dell’acqua
all’uliveto del fondo
cadono semi tristi.

Sui verdi rami dell’acqua
sognano labili bimbi:
quando osservano ragazze
adorne di fiori d’arancio
venire innanzi congiunte
con due cinture di rosso,
i verdi semi si schiudono
dai sorrisi delle bocche
per bere pioggia di seni
dagli uliveti dell’acqua.

CINQUE DITA

Cinque dita si contengono
una cascata di musica
che sgorga da un ramo all’altro
della chitarra argentea.
Cinque dita sanguinanti
trattengono fieri nibbi
dentro i profondi gemiti
della chitarra violenta.
Le cinque dita stupite
in ventagli d’ardore e oriente;
cinque spighe d’oro nubile
per la ragazza del verde.

Mia MADRE NON andava oltre

Non andava oltre colla giumenta d’acqua:
non avanzava affatto sul suo granito di morte;
stava immobile.
La commozione agitava mani impassibili
scacciava i cigni di sangue uccisi
il sale feroce delle sfere di potassio.
Era il momento in cui cadono vinti
gli occhi murati dei defunti orologi
e la lingua indurisce nel piombo del silenzio
con tutte le ali dei suoni inghiottiti.
Ed era anche l’altezza
che marcisce nell’abisso,
pesca d’aurora nel tuo freddo
piccola donna che addita la morte
perenne crisalide d’eco consunta.
Così non andava, stava immobile,
era lì, impassibile, era
un graffito, un segno indistinto
dove le spade trafiggono lacrime
su guance notturne e nodi di gemiti.

IL PUGNALE DELLA NOTTE

Il pugnale della notte
esita sulla gola
ma c’è una chiave che fora
l’ampiezza assiderata,
una chiave che indica
cascate di cristallo
dove pesci di tedio
annegano senza tristezza.
Il pugnale della notte
come valanga di freddo
sa già di tagliare la strada
al picco della speranza.
Il lupo libera denti
di mestizia, sull’asfalto,
la musica ammassa colline
di neve famelica ai volti.
Non s’arrestano notti ai morsi
delle tormente abissali
dove cadono chiavi
nelle ampiezze assiderate,
dove l’uomo della notte
maledice le proprie parole
e tra i suoi chiodi di lacrime
per l’infinito si strazia.

NORD

Ci sono uomini a nord
con tragedie di granito
la bocca ammassata di smog:
sono blocchetti di cemento
vanità di marmo ardente;
sono gli uomini del nord.
S’adeguano a neve di spazi
in grumi di musica snob
inconfessabili silenzi
distese di gridi a nord;
sono gli uomini del nord;
quelli lamponero di volti
nella lunga bianchezza dei gesti
tra le cambiali di sguardi
il rumore dei conviti
il crogiolo di pazzia bianca
seppellito animale notte.
Tali gli uomini del nord
con tragedie di granito
la bocca ammassata di smog.

TI CONOSCO

Ti conosco aerea divisa
pregna del vetro e dell’oro
della luce, non mia, ma assidua
di velo e ricordo, se il giorno
si cela e la notte assapora
l’insicura estate della vita.
Ti conosco annichilita
nella campana della neve serena,
nella battigia che ferve oscena
di detriti,
non mia, ma assidua.


SI STA NELLA LUCE

Il sole va incendiando
le azzurre vene del verde,
monotonia vi spilla
il pregio dell’ombra cheta;
il falco dell’aria si posa
tremebondo sulla luna.
Tanto vasto il silenzio
si sta nella luce remota;
e la memoria si sbianca
diventa luna attenta
s’accartoccia nella vena
della foglia franta.

SULLA SPIAGGIA

Sulla spiaggia con lento atterraggio bluisce
a colpi d’ala il suono velivolo, approda
coi chiari gabbiani delle solitudini marine,
perché il largo dei gridi stringa l’uomo
con il tocco atterrito delle misure scomposte
e i sudari gementi di superfici indivise.
Il fresco corallo delle luci e dei paesaggi,
la percezione distinta del loro breve persistere
e credersi numero, o forma perplessa nel numero
che interpreta il seme, o il latte, o la vertebra rigida
col duro miraggio d’essiccarsi nei deserti;
il fresco corallo allora enumera i battiti
dei nidi che urtano contro gli scogli indistinti
con una fonda memoria di demone, i sorsi
di ardore meriggio, che morde la casa e il figlio
dell’orologio a pendolo sopra la torre infinita.
Lì ai piedi dell’uomo l’autunno con orme di fossili
volteggia notturno, rimescolando i paesaggi.

L’EDERA DEL VENTO

L’edera del vento
esita sopra l’acqua
con brividi di radici
sul suo cristallo profondo.
Frammenti d’argento e ulivi
in plastica trasparenza
modellavano nuvole
di lente corolle contratte;
e i pesci con lame d’avorio
recidevano i bianchi suoni,
emessi a forma di giglio
sul morto letto ondulavano.
Sogno o rugiada, m’invento
edera sopra l’acqua
che tenta il fondo con brividi
di trasparenti radici.

Da POESIE (Un giorno di radici), Roma, 1975 (28 poesie)

IV

A crocchi mormoravano
sopra i muretti,
li avresti detti stagioni
ferme, edera di uomini,
oppure i pupazzi,
or violenti, ora dolci
dietro i palchi di meraviglia,
a ridire cose eterne.

Si spegnevano i mormorii
nella valle notturna;
balzava dalla quiete
solo l’abbaio campestre.

VII

L’acqua torbida avvolge
la sua seta; oscura
i suoi cristalli roventi.
E’ giovane, sangue e arena.

L’aspettava la discesa chiara
delle immobili increspature,
avrà l’antica memoria
delle vette e degli abissi
sotto i vasti mantelli
delle sue ire furibonde,
ma non l’urto acerbo,
precipizio dell’iride;
ma non il balzo puro
dei semi, o l’ala
volteggiante degli uccelli.

XI

Eri alto sull’allegria,
colmo di cime.

Ora sotto la verità
vuoto piano d’ignoranza.

XIII

Quando il vento spargeva
i diamanti leggeri,
laggiù volavano
i petali del freddo,
la vecchiaia delle tenebre;
i vetri erano la lente
delle parole lasciate,
o il vapore di distanze
tra uomo e uomo, o il chiamare
del bianco sui cristalli
delle brine, o i fiori tremanti
dell’acque gelate, o le criniere
dolenti dei camini correnti.
Tutto si agitava di là, fermo;
con un fuoco nero di dominio e d’amore,
i piccoli tonfi del sangue sulla brace.

XV

Avanti scorre il mio passato
alle spalle preme il futuro;
non so se procedo o indietreggio,
o sosto sulle sponde della vita
cogli orologi frenetici, la penna minacciosa,
cogliendo i giunchi dell’acqua nera
per scrivere versi a falde liquide.

Ho appreso a salire spirali d’ansia,
stringendo mani ventose e labbra nivee.

XVI

La valle echeggia nuvole basse
mandrie di velluto scivolano per la nebbia
brani di voci s’impigliano nella notte
e il tonfo del chiamo entra in molti echi.

Pare il silenzio il tuo rumore vitale
la pura salsedine delle labbra
la parola spersa in gola
l’amore castrato.

Pare il tuo dolore agnello
il basso andare funebre
l’odore nero della perdita
la mano attrappita alla porta.

Il tuo chiamare di cometa e strada
la voceuccello mortaala
il sasso cavo dell’eco legata
lungo l’arena inverno saio grata
l’intero silenzio disteso sulla tua bocca amara
con passi grandi quanto il vento e la ghiaia
e gli occhi accesi sui ginocchi delle ferite
e le tue anime chiuse dentro ventose dell’aria:

perché tua sia vergine gemma di fuoco
cenere esplodente di mare sereno
il passo dentro delle cose
la parola silenziosa ride.

XVII

L’alba cavalcava la luce
di là dalle cime
le foglie germogliavano
sopra l’acqua tenera,
ma le voci erano sempre sperse nella nebbia
quando qualcuno chiamava di lontano
e cadevano soffici appena
che s’allungava smisurato il silenzio.

Tu non potevi essere solo nell’ombra
a chiamare dall’alba fino alla luce
con il sangue teso verso il giorno
la gola aperta come ferita
per raccogliere gli echi dell’aria;
nell’attesa di qualcuno.

XXI

L’abbaio cadde dalla rupe,
si spezzò in rotoli d’ira.

Il gregge ondeggiante si riposava
come il velluto delle onde marine.

Il pastore dormiva nel cono della quiete.

Intorno si smarriva la lontananza.


Da POESIE (i giorni sono le piazze), Roma, 1976 (26 poesie)

I

le lacrime si attaccano al silenzio
vorresti ridere della miseria
colla mano sinistra porgere vino
coll’altra gettarmi tra le catene del tempo

perché io SO il tempo
la verde estate che spacca
l’aurora dolce

cantano le donne
giù all’acqua:
domani sposa la giovane ragazza
il padre uccide agnelli
apre vini
va in giro alta la fronte

cantano le donne
giù all’acqua
le voci irripetibili

VI

ammiro le tue forti gambe
la mascella robusta
il guizzo dello sguardo
puoi dunque amare
le donne ti seguono
con l’esca dell’occhio
ma tu rapido giri
dentro i panni cadi nei flosci sogni

vai rovinando la tua giovinezza
un gerarca
una tromba
e il TEMPO?
in autunno il vento

tuo nonno scendeva a stento
nelle scarpe

lo vedi
il campo irraggia con vigoria
dall’alto del canto
l’aria impollina lo spazio
lo dirada
divien folto
ride

tu bisogna che l’arancia
aggredisca
tu assaggi
bisogna tu cresca
la densa boscaglia del sangue
ospiti la tua donna
tu cresca
ti espanda

non cadere nei sogni
la donna non sogna

VIII

c’è gente
appena l’intorpida affanno
compra la canna
il fucile
la bicicletta
c’è gente
appena l’intorpida affanno
SPOSANO!
hanno perso la battaglia
smarrita la propria vita
non si sono chiesti
perché si semini a marzo
i semi di marzo
a novembre
di novembre
e il fieno maturi
a giugno
e tutte le creature che addentano
l’aria
rispettino l’ora si mescolino i
germogli
la terra sussulti e gli umori scorrano
gialli

non occorre rattristarsi
se speri che cambi
l’uomo
che la smetta di guaire dentro la
gabbia
di girare sui minuti
di attendere l’affanno
per spiccare i frutti
troppo alti

ogni cosa incastrala a tempo
nel giusto tempo
e prendi per te molte ore
e prendi per te molti boschi
e risate di vento
e la grande dolcezza
di salire in vetta
della tua giovinezza

Da IL LIBRO, Roma, 1979 (Poema della storia del mondo, I/ XXVI; contenuto attuale, scientifico, filosofico, politico)

DIALOGO I


Quando i cieli incupiscono di freddo
e di nuvole, d’estate la terra
riposa, e respira affannata;
ma appena la pioggia si abbatte
sulle arsure livide, le crepe
e le erbe, ormai rotte e schiacciate,
si aprono subito le mani ruvide
delle zolle, e comincia a scendere
a fondo il minuto seme.
Tutto si affretta a rompere spire
d’arsura, e con scatti irrequieti
si sbriga a sottrarre alla luce
e all’insetto feroce il proprio seme.
Dopo un poco ride nascosto, sopra
ogni cosa ha cambiato un poco il posto,
e il sole può riprendere a scoppiare
tra gli aridi crepacci dei rami.
Solo le piogge si precipitano
schiantando a terra i loro cristalli
con rissa e vortici, i venti squassano
i rumori e i lampi con fragore
tracciano fuochi, la terra rapinano
e trascinano via in ruscelli torbidi
i primi strati d’erba e di polvere.
Con gli anni piccole parti scompaiono
Dalla presa delle tenere radici;
e di sasso in sasso, lungo rive
sempre più basse scendono alle foci
del mare avido. Anche l’uomo
erode i campi, scava e trascina
ogni giorno dai terreni scoscesi,
specie quando ne stermina gli alberi,
con vandaliche brame e fuochi,
denudando le rocce, e devasta tane
ormai scoperte alla luce, indifese
dai rami folti e detriti e ombre.
I colli senza braccia verdi perdono
di continuo, a grani a grani,
le invisibile spoglie morte
che nutrivano bene e molto i rami,
diventano gli scheletri dell’opera
incauta di chi bruicia la casa
che l’ospita e resta nudo al sole,
senza il piacere di celarsi agli altri
per godere in silenzio ore di bene;
e per il cibo, e il fuoco, e le tane
che popolano allegramente i boschi.
Spesso le ruspe addentano i monti
e ne sgretolano i fianchi verdi;
come una mela morsa appare il taglio
bianco di lontano, come un nido
di morte, o un cratere lunare;
spesso i bei fianchi franano a valle
coinvolgendo animali e case,
rompendo le patite opere umane,
con strade e tralicci e piantagioni
che il padrone aveva con amore
poste in ordine e curate e cresciute.
Così le piogge violente e l’uomo
corrodono le salde superfici
dove gli alberi da secoli ai nidi
offrivano segrete mani e casa,
dove strato su strato si adagiavano
le foglie per un vigore sempre nuovo
alle nuove, con molle fruscio i passi
dei carnivori e le prede veloci.
Guerre e stermini e napaln e incendi
ogni anno annientano regioni
colme di freschi suoni e venti
e acque, e gridi d’amore e nido;
anche sciocchi ragazzi per qualche
giudaico spicciolo venduto
dilapidano il verde in un attimo
come chi, per uno scherzo idiota,
uccida l’amico, o la donna amata.
Ecco perché ogni anno la terra
perde un pezzo di fertile suolo
che, libero, sgretola e scompare,
andando via in straripamenti
nei fiumi, gonfi di putrida melma,
migliaia di veleni e saponi
e scorie e polveri radioattive;
tonnellate di morte indegradabile
come crotali invisibili strisciano
nelle acque, e la vita uccidono.
Il mare, intanto, sale, lento copre
le rive, e dilaga verso l’alto,
con moto impercettibile le morde,
e avendo le piogge e l’uomo complice
può col tempo anche invadere i campi.
Un colle, dove mormorano i pini
o i faggi robusti, o qualunque
genere minuto di storto frutice,
è certo una vista riposante,
una quieta oasi d’allegria;
certamente gli uccelli vivaci
da un ramo all’altro vi si lanciano,
e in basso nervose coppie in amore
si rincorrono in gaie zuffe;
non così dove rompono le rocce
l’arida luce del giorno, e le acqua
non trovano la sete, e le ombre
non possono qua e là posarsi.
Allora vedi le pietre sdentate,
burroni, frane, greti, strapiombi,
dove il corvo evita il corso
e le ali minute mai giungono;
quando poi le nuvole attaccano
i pendii con rabbia, nessuno
li difende, e in poche ore perdono
l’inutile e vano nutrimento.
Per questo occorre che scuola e comuni
Non affondino progetti, opere, studi,
non affidino morte regioni
alle torbide acque dei fiumi,
corrano con le torbide pompe,
o s’infiammino coi bei discorsi;
a ogni pietra un albero amico,
in ogni fiume una draga vorace.
Solo così le colline apriranno
i verdi ventagli di pioggia e vento,
come le onde, il folto ombrato andando
qua e là pei chiari suoni verdi
sarà tetto e strada e nascondiglio,
le dita nel profondo sangue, strette
per la vita e la morte, come i semi
delle madri, e i baci, e i sessi
congiunti dentro la freccia del giallo;
i fiumi, liquide coppe d’azzurro
per la luce e i becchi frenetici,
per l’antilope e il lento agnello,
tremano di trepidi cristalli,
come i lustrini di latte o l’iride,
e i campi lo bevono crescendo;
i fiume dalle giovani sorgenti
andrebbero alla meta senza macchia,
privi d’invisibili aghi mutageni,
di oscuri cancri e subite allergie,
così chiari che i pesci ci vedrebbero
stando nel fondo, e le nubi il lento
variare mischierebbero coi ciottoli.

II

La terra è un frutto di fuoco gelato,
figlio della luce e della notte,
che gira in sé stesso come trottola
da innumerevoli numeri di giorni;
il suo asse inclina da un lato
in maniera che i raggi la spruzzino
di fotoni a ventagli, a raggi obliqui,
con lunghe frecce per i giorni freddi,
più corte a picco per le vampe estive.
Intorno, come un alone, l’avvolge
un grande globo d’aria e di nuvole
che sciamano qua e là veloci.
Alone ricco di ossigeno, gas
vitale, di idrogeno, di azoto,
di vivi gas nobili, e di polveri.
Da quando emerse l’albero dal mare,
anellide verde, indifesa bocca
alla luce, anidride carbonica
succhiò dall’aria, espirando ossigeno:
e appena i piccoli animali uscirono
arrancando, i polmoni primitivi
trovarono mari di puro ossigeno.
In principio le gocce di acido
ribonucleico, sfere d’amore
per sé, nei flutti, già resi tiepidi
dalla dispersione del calore
pei vuoti, rotolavano qua e là
in ammassi, e si partorivano.
Ma il nucleo di senso e d’amore
cercava ancore e radici, spazio
di quiete: le gocce più celeri
emisero fili di presa mobile;
i più tardi e lenti, le radici;
le une, con una caccia di mani
intorno alla preda, si scopriranno
i sensi e gli arti; e via a prendere
il cibo, e uccidere la preda;
il moto, anche per l’amore, trasse
i sensi imperfetti fuor dall’incoscio,
e la cellula animale antenne
di contatto e di intesa reciproca;
invece le piante si fermarono
sulle rigide bocche, succhiando…


III

Miliardi d’anni fa ci fu il Fiat
pei nostri cieli, e tutto fu fuoco,
rotolando i globi come grani
nei vortici cui ognuno aderiva;
anche la terra, una goccia di fuoco
la massa antigravitazionale:
ma poi a poco a poco il proprio arco
ridusse, e le fiamme sempre più
tenui, sempre più grande al proprio
centro volte, per piogge di granito
e silicio, a strati di ardente
cenere, palmo su palmo e rotture,
il fuoco raggiunse la sciolta acqua,
legando l’ossigeno e l’idrogeno
con una scarica da tremila gradi;
e cominciò da archi alti a conoscere
gli innumerevoli movimenti
dell’essere azzurro seme libero,
regno del fulmine lampo e del fiume,
che dal cielo straripa in scrosci immensi;
e quando poté in sé giacere
per gli aridi seni delle valli,
raccolse amica ogni libero atomo;
e nel suo ventre mille incontri avvennero;
fino alla vita, che si estrasse autonoma,
l’io e l’acqua a fronteggiarsi e coesistere.
Ora con moto irrequieto si scioglie
di continuo dal mare e dalla terra;
e come cotone lieve vola
veleggiando per grandi cieli;
quando in alto diventa pesante
pel cumulo dei granuli liquidi,
o leggera, come sciami d’ali,
o cadendo in sonori chicchi tondi,
si precipita, ora qua ora là
col suo innumerevole ventaglio scrosciante,
dove imbevendo gli aridi terreni,
cotti dal sole si spaccano a esagoni,
dove offrendo il fresco murmure
per le foglie e i semi in attesa
di aprire le porte avanti alla luce,
o già festosi alla prima radice,
che fremono e crescono ogni giorno…


IV
Decine di millenni sulla terra
folta e gridata da animali
senza storia e parola, passarono.
Passarono gli animali e le erbe
le une sugli altri scomparendo.
ogni tanto nei silenzi profondi
scrocchiavano i tronchi sradicati
proprio come granate tra rovine,
e mandibole enormi trucidavano
le dure ossa delle prede, e i crani;
come marosi tra le alte felci
serpeggiavano monti animati
su due zampe, innumerevoli denti
e gli ugghioli si avvolgevano ai gridi
come crolli o cascate o frane;
tutto era grande pei vasti piani,
ma gli occhi di vetro poco spazio
avevano intorno, e il cervello
un pugno, solo un pugno essenziale
per la lotta, il cibo e l’amore;
e quando il dinosauro feroce…

Lontano il vento scuoteva il verde
naturale dei prati, e portava
a ondate le strida dei passeri,
i piccoli esseri pullulavano,
preda e aggressore volta a volta,
in una lotta di verde e sangue
per il meglio e la vita e il cibo;
le ominidi, lì, velocemente
con dietro i piccoli figli;
a un tratto High, giovane flessuosa
in disparte da una lite feroce
tra maschi, attendeva il vincitore,
per figli sani e robusto amore…

Da A PIU’ VOCI, Bologna, 1987 (27 poesie)

I

Il mare - liquido freddo - suo metallo
che crea continui pomi di rottura
dal seno interno in fervido latte e pane
estende la sua massa di mani
inorno alla sua cupa ombra
intorno al suo fluido pene
che scivola in valve erranti
per pesci morti e otri di velluto
per cimiteri d’amore e di febbre

Il mare accumula corde d’interiora
su risacche giganti dove dormono i naufraghi
e ulisse raccoglie il suo indomabile spirito
dall’ira di nettuno furioso

la sua favola che sempre narra e incomincia
da sempre è di carne e aroma osso e siepe

Il soldato, dai cimieri di serpe, vi giace
sull’immagine scheletro della sua dama
vi dormono strati d’ossa perenni
che non più odono il vortice della morte veloce

nel suo seno d’armonica e vacuo peltro
grandine di risa scivolano come denti
le piogge vi ritrovano azzurre completezze
i ruscelli le loro bocche insanguinate

III

il poeta è l’uomo

con cento bocche alle corde
lacera le sue vocali
allinea i suoni monotoni
quando è madre e lutto

si nutre ingoiando
l’amaro cuore del mondo
e l’acqua la sua acqua
gocciola dalle ferite
dell’umana incomprensione

ma rugge nel vento della mani
dalle fosse e gli occhi vigili
con tutti i militi delle passioni
gridando bandiere e fucili

ma scivola sulla barca
con caronte nocchiero
coi suoi neri versi
per la gioia delle anime

ma raccoglie i bambini
sulle sue grandi braccia
per vistosi arcobaleni
sulle aiuole dei giochi

il poeta è l’uomo

IV

niente è necessario se non il possibile:
infatti l’acqua s’avvita al suo centro
salendo e scendendo le scale
del suo necessario possibile

infatti il tuo labbro divora il vento
finché le chiuse dei tendini
ne consentono le fratture

così l’astro e il seme il ciottolo e il ramo
non guida il necessario:
da dentro il loro corpo
scintilla solo il possibile

l’occhio dell’aria ha finestre
che s’aprono come corolle
ogni dente ha sangue ed erbe
sempre in moto sempre oltre

anche la creazione: dalle rive,
dalle cave deità, dalle isole
di nuda abitabilità, esteso uguale:
fu possibile, che l’unico in diversa
unicità stesse in sé uguale diviso
nel possibile modo dei modi: acqua
d’aria e vento e fumo e forme
sempre nucleo e ciclo e ghiandola;
come una mela di fuoco, la bocca
dei vortici, e la pioggia di veli
in se stessi di moto elica e sfera
e globo e rotondo e cuore e cranio
su tonde onde e gocce e stille
le uova delle ruote e dei semi
perché il c’è si estrae in sé solo
pei varchi a tempo da tempo al suo spazio
in un giro di giallo e chiara brina
che è fuoco del suo proprio ardere

V

cattedrali vuote
con sacerdoti di pietra
che ardono in fuochi silenziosi
e pregano acque illimitate

nessuno sa se stiano in moto
perpetuo nelle labbra incandescenti
nessuno ne ode gli atomi sonori
che si legano e si spaccano con fragore

a volte le tangenti dai tempi
esplodono i punti infiniti e le curve astratte
per uno sbarco d’occhi e idee rotonde
che schiumano le fredde lumache umane

quando alla sera ti somigli al cielo
melograno immaturo di fermento amaro
i tuoi fumi dalla clessidra evaporano
posando i remi sulle alte brine

quando gronde di luce scrosciano a scatti
gli impulsi del moto e della quiete
tu scivoli sul pattino dei mari
senza un’erba o ala o un nome

brevissima fionda d’odio e amore
che muove in cerchi gli aghi astrali
per un riposo di nebbia siderale
che arda i curvi gesti dei mari

VII

viviamo attaccati
alla voce, insieme
ai venti mutevoli
per sorprenderci
sulla bianca cima
della morte alata

noi siamo il germe
che la terra nutre e ama
ma lo richiede
subito, appena l’ora
l’avvince e l’innamora
l’aria

ci teniamo stretti ai muri dei sogni
con vele e timoni
legati da cento fedi

ci sorregge il mare
della parola coi semi
al vento-corno cavo

e andiamo, falene
per spiagge deserte
a fondare colonie
di cristalli fossili

quando partiamo
è un vento freddo
che sradica i giorni
senza memoria


IX

la donna è grano seminato
albero lievito brage
è composta d’acqua e ponti
con camini e ruote e strade

dorme con la notte e la luna
il suo sonno di rumore verde
e di vele le storie delle sere,
priva di vesti e dolore
col solo latte delle carni
e la parola che si vede

imparò per prima a parlare

per l’uomo era mistero
crine grotta e fogliame
stentava a imitarla

la donna ha il chiamo
candido dell’aria
chiusa, il grido spezzato
dal silenzio, è ramo
che si innesta, lieto
pomario continuo
latte diurno e uva
delle labbra, o ventre roseo

l’uomo ancora l’insegue
lungo l’acqua e il ramo
furioso del suo restare intatta
d’acqua d’oro e di brivido

XIII

le polle delle nuvole
s’alzano da terra
con occhi terrestri
guardano in alto
come le cime o i torrenti
dei venti dalle mani
che precipitano nelle otri
degli occhi perenni
vorticando i loro veli
di freddo e di mare

e il gallo si rompe
sul palo, comete
di odori mattutini
s’avvitano, vanno
contorti pei fiati

e la campagna versa
i suoi metalli sonori
spaccata l’alba
attacca i suoi liquori
su grigie tavolozze
con rapido tremore

là vanno ancora
a stento i corpi
smarriti per gli otri
dell’azzurro remoto
s’incarnano nel giorni


XV

il cerchio interrotto
dalle tue vecchie mani
come una spiaggia abbandonata
i solchi vi nascono spontanei

gli uccelli dei gridi stanno nelle arene
dei giorni felici

antichi focolai ardono legni profumati
tra le favole e le streghe
e un bicchiere di lucente allegria

come un vecchio libro dimenticato
che ha segni e ferite e brutte grinze
carico di stantia polvere e odore acre
il letto del tuo fiume è pieno di memorie
e nel remo ogni tanto strappi brandelli
che emergono come scheletri disossasi

le tue mani sono foglie continue
le tue parole stampi vuoti
i tuoi gesti archi diroccati
il passato una marea di detriti:
o mio vecchio, caro naufragio

XXI

il mio ricordo è sabbia di gelsomino
dove la luna scuoteva le ombre
e le navi notturne oscillavano per lo stretto
come cigni di tristezza o vele d’avorio

pei colli crescevano globi gialli
i densi aromi degli odori odorosi
e l’acqua al tonfo di pale in argento
sollevava i cristalli dello sciacquio

il no ha posto il piano e il tempo
a guardia dei cedri e delle mani
gli orologi funerei carichi di bare
marcavano i confini definitivi

XIX

il grande giro del mondo
si chiude sulla notte
con i polsi legati
prigioniero dell’eterno

quasi ciclamino freddo
s’aggira in ansia
mangiando bitume
e neon e grigia nebbia

la notte sopraggiunta
divora lune aperte
e nasconde gli amanti
dentro verdi silenzi

ma il tempo segna
le sue corone funeree
sulle rocce uniformi
della vitrea quiete

ciclamino e freddo
blu dell’occhio e tonfo
ancora un poco ancora un verde
tremore e poi le chiare
membra delle acque sonore
usciranno dalle ore gaie
per un giro nuovo
dai camini il cielo appena aperto
lungo le rive i primi gettiti d’oro
ancora le mandrie dormono quiete


Da I GIORNI, Forlì, 1988

I giorni (51 pagine, Poema; 12 pagine, Infinito; 3 pagine, 1982)

diamante di silenzio, uve di passione,
i giorni porgono corone
da sfogliare (passo e miseria);
la loro luce puntuale
affretta illusioni, e germina dentro,
dandoti volti occhi spaventosi.
ogni volta che sbanda l’ombra,
e risiede di radice e d’acqua,
accumula violenza verde;
e s’aprono i ventagli di sangue.
spesso e rovente, sibilato ancora
dall’orizzonte delle piogge, le squame
rosse della vita, sempre torna
e s’accompagna pei frutti amari
e
viene
da sempre
il medesimo
centro d’attimo
con la tua doppia curvatura
a portare vino
di dolore
il colore geme
sotto il rosso sangue
si strappa gli specchi delle onde
dal se proprio, dal suo inessere,
percependo l’elegante sentimento
che lega un attimo
e lo fa spiga saluta
l’insicura messe della sera;
e il vento luce di grave accento
dalla notte provenendo, assetato
di grano, che è numero, e mare
dove le vele delle mani
tracciano solchi di piacere.
le schiene baciano la terra,
s’inchinano,
lievitano,
stanno giù.
a tratti dai magli del silenzio
sprizzano rauche voci del caldo,
in cima alla resa turbina il vortice
complice, semplice, dentro s’arrampica
nell’elica satura d’ardore e zolfo.

piano piano svelto scompare
l’estivo lampo dell’acciaio
di qua

breve rapidità.

le strade sono lunghi echi
dove scorre sudore a grani,
dove le trombe della luce
annienta la voce dei respiri,
dove la cicala si spacca
di sete e la nuvola sbianca,
dove i desideri piantano àncore
che subito tutti calpestano,
dove cresce l’arida fame
d’incontrare qualche uomo,
dove l’amore a testa bassa
si guarda le nude natiche;
dove si cerca un altro dove.
i passi
ardono di ferite
vanno avanti cogli occhi
le mani
posseggono il fuoco
eccole!
sono cariche di tristezza
anelli che cercano gli appoggi
negli incontri di vento
pane secco
mare che sale su scogli
guarda come sono puro
due letti d’amore vuoti
due seni inariditi.
le strade sono fogne
in cui scorrono le talpe
delle folli delusioni;
piazze di grido assente
con un uomo solo
sull’albero secco
e una pietra
di focolare.

e
poi
si leva
nel turchino
un airone d’ombra

e
poi
compare
l’angelo oscuro
come una fiamma ardente
ma
e poi
come
le mani
due occhi accesi
che hanno verde sangue,
così nude ti sorridono
sono grandi

MA NI

e poi dicono
che i poeti, che
magma d’estrogeni
cavalcano le muse nere
finché aperte non gemano
d’inni cupi, di verghe scintillanti
le muse sono donne
le muse stanno cantando
le muse s’agitano di verghe e conche,
scuotendo lune gialle e pomi maturi.

ah! cielo delle sette stelle
l’uomo spezzato al bivio
con lo spirito vedovo!
mondo nero
delle cantine
dei cunicoli
dei suoni vuoti
i palazzi senza scale
dove ogni eco piomba
nella vertigine oscena
delle natiche del silenzio
poiché il poeta geme
sulla pietra dei suoni
scavando ideogrammi oscuri
di lodevole memoria
ecco la fama colla frusta
con la sua frusta
il suo cilicio ruvido

il tuo prossimo s’allena
a morire d’inedia
sul giallo canto dei grani
dell’acqua trasparente,
il tuo prossimo sale in treno
sofferente di valigie,
col suo biglietto d’eterno
si getta sui binari,
quando lo vedrà qualcuno
morirà un’altra volta

il tuo vicino di casa
grinzoso di grigia inedia

continua spaccatura
delle tue labbra morbide
melograno
e
rosa
il carbone!
se non ci fosse il vento
a portare coppe di odori,
che ubriaco è il suono
e la pioggia dei fondali!
quando prende un’arma
per riconoscere il tuo sangue
i ragnirumori
scricchiolano
secchi e morti
e l’occhio sanguinante
cresce nel vuoto
oggi è tempo bello
sulle cupole delle voci
funghi putrescenti
che gocciolano putredine.
le dita delle ovaie
si stringono sul sesso,
con bagliore di porte
nell’acqua notturna
s’azzuffano gli spermatozoi;
rogge, corridoi, specchi:
esplodono mani ardenti.

ora è mattino
autonomo e preciso,
con uccelli affogati
dentro lame fredde
dentro
più ancora
dove la radice uccide
per bere il proprio sangue,
con i cadaveri in fila
l’arsura.

misuro la mia libertà
al mercato delle mani
tanto a cambiale
tanto a grado
tanto a giorno di fame
tanto a continenza
tanto a astinenza
tanto a compressione
tanto a depressione

oggi imprimo ho impresso
a un di presso il diavolo
il dottore a forma di moda
mi arresta col tocco morale
mi gratta il puro animale
al diavolo il diavolo
che mi vuol manipolare
castrandomi gli impulsi
che pulsano
inchioda
nei raggi della morale
che cambia come il deserto
sopra tutti gli stati
che adatta il camaleonte
della sua ipocrisia
ad ogni paese
ad ogni uomo
che è nudo
che è fiore
vento
pioggia
purezza
che lo inchiodano
con le vuote ideologie
cave
nere
gravi di soldi
col vessilo e la pallottola
lo inchiodano
ne conciano il cuore
frantumano le meningi
l’arlecchinano
lecchinano
chinano
nano
ano
no
hoH!

dove è andato l’uomo?
grandine esplodente,
sobbalza dal rosso vetro:
è focolare d’amore e riso

dove è andato l’uomo?
Rousseau
Van Gogh
Gauguin

IL POETA
coi padiglioni spezzati
prima di covare le uova
il poeta non cova le uova
non cova i potenti
serpenti
denti
enti
le teste d’uovo sono sette sorelle
coi postriboli dell’oro legano
col denaro cuciono
coi mass ammassano
tassano
ingrassano
gli imperatori sono sette
invisibili
settanta volte sette
sette

dentro casse di piombo giocano alla morte
nei sotterranei del male sezionano i cadaveri
dentro le chiaviche d’oro si masturbano
si leccano con ardore
in comunione
ma
noi
dobbiamo
devo dovete ete
dobbiamo amo
trovare are
la libertà la libertà
ta ta
ta

come una goccia nasci puro
nudo udo hh
tu sei ei eh eh

ti gonfiano di tabù
superqui superlà supergiù
e
a un tratto sei super
massivo
io minimo
altri; gli altri, stampo
imprimatur, compremuto
spremuto muto uto!

eppure il vento apre
tutti i verdi uccelli
le corde del magnete
sprizzano all’infinito
onde e onde di suono
per il moto e la luce,
senza usura, vibrano
sempre, le corde invisibili;
chitarra magnetica
in cui il rame attinge
il tremito di luce;
eppure la parola
s’alza per trovare
i contatti estremi
dell’amore e di dio:
fondo di páthos e mare
con le volte aperte
delle stelle erranti
e colonne in movimento
in cui crescono e si sviluppano
le opere e i giorni
in cui nasce l’acqua
e partorisce il carbonio,
che genera il verde immobile
e il rosso si cerca sempre

ma sono io
ma

eppure le mani pure
che ardono di brage
e stelle marine a pezzi
si rigenerano d’amore
aprono i loro ventagli
le ferite sanguinanti
e riportano al focolare
la parola e l’uovo
il vino e la brage
l’uomo
poeta
lievito
coi sacri versi
decapita le spade
addolcisce il cuore
al politico feroce
che sogna i morti
per la sua nera scala

il poeta è l’uomo
che sradica le catene
morde scogli e prigioni
mare di dura erosione
e costante pazienza
che s’infrange e rinasce
verso dopo verso
coll’io sotterrato
e la mente un uragano
l’uomo è l’io del parto
- nobile nudità -
parola della specie
da labbra antiche

il politico l’olitico
il litico
solvente imperterrito
alla caccia del poeta
come un leococita
se lo incontra lo ingoia
non lo cide
cide
plasma
ecco
il poeta
dentro il rumine politico
canta guerrieri e cavalier
di furore furente
sàcrico
sono gonfi di bandiere
scricchiolano le bare
appena lanciano il guanto
della santa guerra
già sono tutti furenti
per tutti i giovani
per tutti i figli delle armi
per tutte le case crollate
per tutte le membra dilaniate
per tutte le donne violentate
per tutti i bambini aperti
da cui sgorgano i sogni
il politico è un silos d’ideali
chiunque va e si riempie
quand’esce
esagitato di drappi
grottesco di palloni ed aureole
prende subito il fucile
e fa giustizia così
coll’ideale
si può ammazzare chiunque
col permesso dell’ideale
scusi: t’ammazzo
ma ce l’ha
il per messo!
ecco qua
la verità
col mio coltello rosso
col mio coltello nero
col mio coltello giallo
ti devo u c ci de re
ti trafiggerò con la bandiera
pianterò sul tuo cuore
la lama di un libro
tutti gli stendardi
tutte le fibbie
del medagliere
del generale
vedrai la verità
aldilà
dove tutti gli uomini
sono cerchi chiusi
i cui frutti eterni
hanno perso il germe

sono i padroni
della luce
e sostengono gli archi
del nulla
lì il generale
guida eserciti muti
e il politico grida
che bisogna ammazzarli

il poeta è con dio
perché cantava la pace
sulle tessere bruciate
sulle maschere degli ideali
sui fucili sciolti
nella quieta brage

nell'iglò
un uomo
col bianco lume di neve
a manhattan
un uomo
coi larghi fari d’ombra
e la parola disanimata
nel tugul
un uomo
d’acqua secca e rara
un uomo
negro
un uomo
bianco
un uomo giallo
ma quanti maestri!
il padre
divora il primogenito
per virtù d’aria e cuore
tra due strati di cadaveri
il re evita la morte
non toccherà la terra
ma la terra della terra
le femmine feroci
cucione le fiche
con bava microbi e pena

maestri! ma quanti!
tutti gonfi di verità
malthus e marx
mao e lenin
aquila dell’occidente
sole d’oriente
dux e ku klux

chi di questi avrà ragione?
e di altri
e ancora
di altri
che stanno in casa
che blaterano dalla cattedra
che gonfiano sui balconi
che gemono sulle tribune
che giocano agli stati
che giocano alla politica
che giocano alla guerra
ma quaaannte maeeeeeeeestri
dicono
la bomba rossa
ammazza, ma non è male
la bomba nera
la bomba bianca
ti apre le ali
verso il paradiso

su prendi il fucile
su squarcia il petto del tuo nemico
trafiggilo colla tua spada ideale
fallo a pezzi con la tua religione
annientane la casa
cospargi i figli di cenere……


Da SOGLIE DI PIETRA, Sessa Aurunca, 1994 (60 poesie)

I

la bianca montagna
il battito
l’uccello nero
con la strada addosso
senza punta confitta
ma io sto qui a vedere
l’erba madida di sudore
sto quindi a vedere

XI

perché vuoi che io soffra?
dunque
confessalo
confessa
che mi ODI
DI’ sinceramente che vuoi la mia biada
che ti occorre il mio grano
che vorresti il mio consenso
anche il mio Dolore
vuoi darmi l’elemosina
salvarti dai rimorsi meritarti il saluto
lunga fila di riguardo
dietro la tua bara
lo vorresti!
eppure prima di me c’era
il pane
eppure dopo di me ci sarà
il pane

DAMMI IL PANE

ricordo la scure che bruciava
con le ferite di brina
e il gufo che mi sorprendeva dentro la chiusa del bosco
coi tonfi duri dei rumori dei suoni
delle strade a percorrere
la polenta insipida
la madre
io la ricordo/voleva scaldarmi
appena arrivato

qua e là prendi il pane togli la giacca

BASTA!

chi mi pagherà se mentisco
TU
con la TUA ELEMOSINA?

XVIII

sapore di gengive
d’alga-sale

ODORE DI RAGAZZA

ha ondeggiato
ti sei mosso
come un arco

era tua

lungo l’arenile correvi a braccia spiegate
per prendere tutto il vento che ti bastasse a sorridere
da crescere alto fino alla tua corsa

raggiunta
avete riso di luce


Da SPAZIO > < TEMPO, Melegnano, 1997 (12 poesie)

VOCE MUTA

E’ più leggero della luce,
virtuoso come il vetro,
la sua immagine non muta,
non ha sorgente, né foce;
immagina una voce muta
che si esprima in ogni luogo,
e che la perpetua eco
sia solo la propria voce:
ecco che sale l’aurora
dei semi, vanno i soli
dell’assenza verso mete
infinite; puoi percepire
il battito oscuro senz’ali,
come un mare quieto
dentro la luna vuota.
Puoi raccogliere la preghiera
per ascoltare il silenzio,
che ha, si ripete, si vela
vibrata tutta invisibile
verso le sponde di luce
che dorme nera nel nulla.
Si chiama l’ognidove,
l’immagine senza tratti,
orientata in un globo aperto
verso i suoi cinque poli,
inesistenti, ma protesi,
ma già sapienti, già globi
di robusta trasparenza,
null’altro che men nulla,
né suono, né lampo,
tutto ciò che trema
d’immenso, privo
di qualunque
amore, di ogni linea
che tracci separazioni.
Sono pieno di seduzione
per la trama appena aperta:
ci correranno le eco
spinte contro se stesse.
La parola non ha sentieri,
soste o mete da raggiungere,
ma cade in trance nell’onda
che trema d’acuta tensione:
e la trova, in sé le risplende
senza che vi tocchi l’acqua
della propria perdizione.
Solo ora posso affermare
che è proprio lo spazio eterno
legato da amore e odio

Volto Radiante

La notte scopre il suo volto radiante,
immagine splendente, per sé sola
intrattiene parole, sa infinite
voci, appena tradite da accenti
esplosi, folgoranti. Vanno, vengono
in cerchio i cerchi, pongono immani
arcobaleni. Così mite attendo
che mi leghi; m’arrendo, ai baleni
eterni colgo, raccogli i fulgidi
fulgori, quei rossori interminabili
ai quali cedo labile la mite
sofferenza, incapace di credo,
o sapienza, o scienza; tutto chino
lungo la lontananza, l’ampiezza
che abbraccia così piccola inezia.

SGUARDO

Basta aprire lo sguardo trasparente,
entrare nella luce: è un mare eterno
d’energia: innumerevoli punti,
aghi di vetro d’onda sono tempo.
Ti stupisci alla cometa del giorno
che imbianca l’alba; pullulano stelle
strappate dal fuoco al silenzio, arse
d’estremi mutamenti elicoidali.
Tu però sai passato e futuro;
e la chiara verità, la visibile
consistenza di ogni energia
celata dentro involucri apparenti;
perché tu vedi oltre, scorgi dentro
la trasparenza ciò che in sé traspare

/&%*°/&%*°

Numerosi premi; giudizi positivi, formulati da validi esperti.
Collaborazioni.

Da pubblicare ancora centinaia di poesie inedite.


HAIKU

Stampati da HAIKU INTERNATIONAL ASSOCIATION, P. O. BOX 275, TOKYO, 100-91 JAPAN

I
Trema una goccia
Dentro cristalli
D’arcobaleno.

II
L’inverno accende
I turgidi seni
Dei freddi rami.

III
Lanterna e neve
Cuciono trine
Di pura quiete.

IV
Nemmeno un’eco
Di neve notturna
Ma assenza e cielo.

V
L’acqua del canto
E’ incantata di musica
Nel mare d’ombra.

VI
C’è l’usignolo;
La notte dorme chiara
Di quiete e luna.

VII
La spina punge
L’amore, e s’incendia
Di primavera

VIII
Appeso al cielo
Sulla lama del vento
Ondeggia un petalo.

IX
La rosa d’alba
Dal proprio nido
Suscita luce.

X
L’arcobaleno
Solleva il prato
Fino alla gioia.

Altri pubblicati in Germania, Iugoslavia, su riviste italiane; premiati; molti ancora inediti.

Angelo Di Mario

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