Angelo Di Mario

 

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VEL-z-na * > AR-wie-ta/ UR-wie-ta

   Nell’articolo intitolato “ARnna HIRumina *UR-Fs(-sa)” ho dimostrato l’incompatibilità tra la radice SEL > FEL > VEL ‘sole’, da cui traggono origine tutti i termini riferibili a questa idea, così espressa, con il nome di * > ARwieta/ Urwieta ‘città’; inoltre, facevo notare, che con l’introduzione della O, lo sviluppo SEL > FEL > VEL > VOL > BOL/ POL è coerente; e giustifica i nomi successivi, noti, come i toponimi BOLsena, BOLogna; in Asia Minore, presso il fiume Aesepus, si conserva POLichna, e a Lemno il quasi identico POLiochni, con la desinenza -ch-ni, paragonabile a quella del magistrato velsinio zil-a-ch-nu/ *til-a-s-su ‘teleste < *telesse’; con queste minuziose indicazioni possiamo comprendere una larga serie di nomi, a partire da quelli recuperabili in Asia Minore (UIL-u-siia > FÍLios(-sa/ -n-na), fino ai nostri definibili VEL-si-ni-i, e Bolsena; la città capitale di tutti gli Etruschi, distrutta, depredata di ogni cosa, cancellata; persino i nobili vennero privati delle loro dimore e ricchezze.
Dopo una lotta che spazza via un centro di raffinata civiltà, così grande, come le mura lo indicano, distruggendo ogni traccia culturale, coi resti urbani celati sotto metri di terra, portando via ogni bene prezioso, sarei molto cauto nel supporre una qualche condiscendenza dei Latini verso quel popolo, compresi i nobili; piuttosto una parte dei fuggiaschi, forse solo quelli ritenuti alleati, preavvisati, quelli della classe dominante, o saranno partiti prima della battaglia, o lasciati fuggire si saranno in parte salvati ad Orvieto; solo con il passare del tempo, a poco c poco avranno constatato i limiti sufficienti di sicurezza e di nuovo si saranno avvicinati alle antiche mura, in basso, riedificando in modo episodico un piccolo centro, che, data la posizione davanti al lago, rendeva quello spazio di nuovo accattivante.
E’ indizio di scarsa concretezza supporre che intorno al lago non fiorissero centri sin da età preistoriche, immaginate se non abitate anche dagli Etruschi, così diffusi tutti intorno.
Quei signori rifugiati tra le colline, o trafugati ad Orvieto, posto sicuro e vicino, nel riprendere possesso dei luoghi originari possono aver generato la confusione degli spostamenti; suppongo che saranno rientrati in una possibile zona abitabile chissà quanto tempo dopo; riconfermando il proprio potere; a ostilità ormai del tutto superate e dimenticate.
Comunque sia, o che fuggirono protetti, o furono lasciati fuggire, ben pochi saranno stati; il problema non cambia: dopo la distruzione quel residuo di popolo rimasto si disperse; sul posto rimase una città rasa al suolo, inghiottita dalla vegetazione; senza più alcun segno, memoria; perché i vincitori avevano incendiato, abbattuto e depredato ogni cosa, cancellato ogni indizio; ed allestito a Roma la più grande esposizione della rapina ai danni della definitiva distruzione della civiltà velsinia, la prima in Italia, e fondamentale, per la italica ed europea.
La scusa, di tipo bellico, che i Latini piombavano sulla città con l’intendo di domare i liberti, e restituire il potere ai nobili, ha la stessa verità di tutte le guerre, come le comprendiamo da sempre e ancora oggi; se dovevano punire solo queste classi subordinate, perché hanno distrutto ogni cosa; perché poi si sono impossessati di tantissime sculture? E di quant’altro noi non potremo mai conoscere, trafugato tra le mani di ogni comandante? Le possedevano già i liberti e alleati? Erano arrivati lì per punirli? O piuttosto si trattava di una delle solite armi propagandistiche, messe in opera dai belligeranti per ottenere consensi e comprensione? Se appartenevano ai ricchi, com’è naturale, conquistata la città, come l’aveva conquistata con l’assedio, entrati, gliele toglievano per restituirle ai legittimi proprietari, presumibilmente assenti, consigliati a fuggire appena prima e rifugiati poco distanti, magari nel territorio sotto la tutela di Orvieto. A guerra finita, con la città in pugno, questo comportamento avrebbero dovuto riservare ai nobili, reintegrandoli nelle loro posizioni e ammazzando i liberti. La verità è che M. Furio Flacco non stava lì per punire o proteggere qualcuno, doveva solo far scomparire per sempre la civiltà etrusca: città stato, religione, cultura, opere, libri sacri. Ecco la verità: spogliarono di qualunque valore tutta l’area; ne sfoggiarono, come si sa, il più grande Trofeo a Roma. E i soliti Storici a prezzo, quando la storia è troppo grande, cosa pensate che facciano: si stanno zitti; per questo non si hanno mai informazioni precise su stragi indicibile, e rapine estreme; non possiamo pretenderle per epoche così lontane.
E forse qui sta la ragione per la quale non si potranno recuperare reperti notevoli da quelle parti, data la distruzione sistematica, allargata a tutta l’area sotto l’influenza della città. Tuttavia una ricerca dei ruderi andrebbe compiuta; una indagine degli strati sotto le mura, per individuare sostanze inglobate e determinarne l’età, con le analisi oggi possibili; una visione aerea dovrebbe rappresentare il primo passo, coglierebbe la vastità dell’area abitata, gli indizi rimasti sotto terra, sotto gli alberi che coprono la campagna. Una minuziosa revisione del territorio, palmo a palmo, con gente che possiede occhi capaci di individuare tracce di fratture, forniti di strumenti adatti, qualche spazio vuoto, con resti di rottami, da qualche cavità sbrecciata o interrata da secoli potrebbe sempre riemergere un segno preciso; tracce delle distruzioni devono potersi individuare, almeno sotto lo spessore protettivo nei campi.
La convinzione della univocità delle due città deve essere stata provocata proprio dalla totale distruzione: a quel punto qualche ingegno pratico, o i più, avranno detto: ‘Tutta l’area è vuota, è nostra’, anzi ci abitavamo noi lì tra quelle mura sgretolate, rase al suolo: così si sarà tramandato per secoli. A meno che non sia il prodotto di uno sforzo antistorico, cominciato subito allora, per coprire le riprovevoli gesta dei Latini.
Ma uno può anche obbiettare: se Orvieto stava nelle città vecchia, che bisogno aveva di essere trasferito nelle città nuova con altro nome? E quelle mura, residue, chi le aveva innalzate? I Velzna? I Vietena? Oppure opera dei Latini; dopo tanta distruzione, che gentili; circondano le rovine da loro procurate con tanta veemenza, di mura, tra l’altro, troppo grandi per quattro spiriti rimasti; tanta fatica gentile, chi se la sarebbe immaginata! Oppure prima di allontanarsi, magnanimi, permettono l’innalzamento di una fortificazione per favorire un residuo di popolo, poco prima distrutto, e che poteva andarsene ad abitare nella sua città vecchia; ma se sono a pezzi, chi le rese tali? Chi le fece rotolare? Non fecero in tempo a completarle? Oppure erano e sono l’indizio maggiore che vennero abbattute e disperse, insieme alla città, grande, con i templi, e i luoghi di rappresentanza? Che fine hanno fatto tutte le parti mancanti? In quali luoghi è possibile trovarne traccia? Quale ingegno fu capace, insieme ai consigli degli Anziani, di strutturare una cinta così estesa…senza abitanti. Le mura circondano le città…
Bisogna aggiungere dubbi, per aprire la verità.
Ma torniamo alla ragione preminente: solo Velzna conteneva i dati culturali, religiosi e politici per poter meritare la distruzione totale; la ILION italica; il cui nome è rimasto nella collina denominata Vietena, presumibilmente conserva una degradazione di VEL-s-na/ VEL-t-na/ VEL-z-na, attraverso la varianza *FET-t-na > *FIE(T)-te-na < *VIE(L/T)-te-na. Anche Alcune parole possono guidare la ricerca, ad esempio il ricordo di un vecchio del luogo, che riporta la tradizione secondo cui da quelle parti comandava un RE BUTTANO; se uno conosce la fonetica, ci intravede subito *BUR-ta-no (RT > TT), ossia cogliamo un ricordo vago, ma ammissibile del PUR-t-ne etrusco, del ‘PR-i-ta-no’, o del quasi simile termine licio, fortemente degradato, che contiene quella carica, ma così ridotta dal parlante, che solo una buona confidenza con la glottologia può restituire; si tratta dei PD-d-ne-MMis, dove la radice monosillabica PUR/ PR ha subito una consonanza/ assimilazione divenendo *PUD-de-neFFis, infine si è contratto in *PD-de-neFFis; se ora togliamo l’invasione del digamma con i suoi fedelissimi coadiutori (F > b, f, m, p, mp, ph, mph, u, v, w), ecco i ‘P()R-i-ta-ni’ ripuliti con *PUR-te-neis; come vedete BUT-ta-no < *PUR-ta-no non si differenzia molto, anche confrontandolo con POR-se-n-na < *PUR-s-e-n-na > *BUT-te-n-na; era una carica politico-militare, non il nome proprio che si ritiene tale.
Tornando al problema, davanti a quella valle ormai vuota, senza più alcun segno, qualunque orvietano, guardando giù, dovette convenire che una simile contrada non poteva appartenere che a lui, e a tutti gli altri della sua città; sempre che non fossero stati belligeranti insieme con Velzna, ma che subito dopo, in tempo utile per non correre rischi definitivi, abbiano dato in qualche modo mano ai Latini per la soluzione finale, divenendo subito dopo padroni dello spazio rimasto vuoto.
Si leggano soltanto i due pezzi riportati qui sotto, tratti da “La Storia”; con poche parole spiegano le fratture della verità, dove si annida la ferocia ed il sangue taciuto; quest’opera è nuova, ma racconta cose antiche, impercettibilmente sfuggite al silenzio, opera stampata a cura de “la Repubblica”; una particolare attenzione vada al “Centro Federale Volsinii”; che sarà stato mai, se non il luogo dove si radunavano le ‘Dodici città’, magari a Vietena, ognuna tributaria di qualche scultura…
Volsinii.
   Da “La Storia”, V. 3, pag. 201: “Le conseguenze della vittoria romana furono disastrose per l’indipendenza politica degli Italici. Gli Etruschi, quando i loro focolai di resistenza si spensero nei territori di Rusellae e Volsinii, chiesero e ottennero, nel 294, trattati di pace della durata di 40 anni. L’iniziativa partì dalle città di Perugia e Volsinii, e alla fine vi aderì anche il loro CENTRO FEDERALE VOLSINII.”

Essendo il ‘Centro’ considerato a parte, occorre pensarlo indipendente; magari ubicato nel punto più alto, oppure sull’isola Bisentina (*FISH-e-l-t-na), come ritengo.

Pag. 214: “Nel 265 i Romani, chiamati in aiuto dagli aristocratici di Volsinii (nei pressi di Orvieto), che ne erano stati espulsi dopo il sopravvento che vi avevano preso i liberti, espugnarono la città, la distrussero, trasferendo la popolazione in una nuova sede, a Volsinii Nova (Bolsena), e ridiedero la preminenza agli stessi aristocratici dopo aver crocifisso i liberti (nell’area sacra di Sant’Omobono a Roma, dove sorgevano i templi della Fortuna e della Dea Mater, fu eretto un monumento al trionfatore M. Fulvio Flacco, singolare per le numerose statue di bronzo, ca. 200, ivi trasferite come bottino fatto nel tempio FEDERALE di Fanum Voltumnae, e delle quali si sono identificate le impronte).”
Non credo che i Latini si siano preoccupati dei rifugiati, di recuperare gli aristocratici, con il trasferirli poco più sotto, verso il lago, erigendo pure nuove mura, persino più estese della nuova città, o permettendo che lo facessero i fuggiaschi; dopo aver rotto e snaturato ogni indizio culturale nella valle, penso che saranno invece partiti con ogni tipo di bottino, lasciando al tempo l’inizio di nuova agglomerazione spontanea, in una zona ormai con dimore diroccate e macigni rotolati per campi e sui fianchi delle colline; zona debole; senza possibilità di creare ulteriore minaccia alla dominazione latina. Che se ne facevano di quelle mura? Per giunta costruite per una città tanto piccola? Si sbaglairono?
Inoltre, “Nei pressi di Orvieto”, non significa a Orvieto; erano scappati; si saranno accampati tra le colline, in dimore di campagna: ed il bottino nel tempio federale, rimanda al “Centro Federale Volisinii”.
Come si vede, si tratta di un intreccio tra convenienza e leggenda; che quell’area distrutta dovesse appartenere ormai ad un popolo lì accanto, fornito di mezzi per difendersi, non costituisce una grande scoperta: una zona devastata, vuota, specie in tempi senza leggi come allora, veniva subito occupata dal più forte dei vicini; chi poteva opporsi; se poi furono alleati dei latini…
Stando alla realtà ancora conservata, occorre dunque partire proprio dalle mura; capire con una foto aerea la loro ampiezza: circondava un pari agglomerato di abitanti? O era stata progettata in modo fantasioso per i quattro rifugiati sopravvissuti? O non era stata portata a termine? O distrutta subito dopo? In tempi medioevali? Per quale ragione?
La strategia essenziale resta sempre quella di penetrare al di sotto nel terreno, compreso nello spazio delimitato dalle mura; trarre inoltre quantità sicure di terreno, come fanno con cilindri di ghiaccio ai poli, per determinare le epoche attraverso lo studio del deposito di elementi biologici, trarre quantità sicure di terreno, non contaminate da manovre improprie, per individuare sostanze conservate dal tempo della loro collocazione, in modo che non si facciano parlare le pietre, non adatte a ricordare una simile operazione. Qualche strato ancora intatto lo si troverà di sicuro. Uno sguardo aereo lo dedicherei sempre a tutta la zona; potrebbero comparire fondamenta qua e là tra gli alberi; sosterei con particolare attenzione sull’isola Bisentina, potrebbe riservare sorprese, restituendo forme di edifici cancellati; frammenti diffusi qua e là; anche tra le mura ancora esistenti.
Per ogni cosa sarà necessaria una ricognizione minuziosa, affidata ad esperti obbiettivi, lontani da rivendicazioni improprie ed assurde; liberi dall’ipse dixit; perché costoro, persone sempre degnissime, sono bloccate dalla fede, dalla convinzione che, se l’ha detto qualcuno fornito di larghe famosità, non può mai mettersi in dubbio.
Bisogna superare la condizione di zona sicuramente ritenuta interdetta, data l’enormità della distruzione da affidare al silenzio; e la colpevole consapevolezza dei Latini, di aver cancellato la matrice della propria civiltà, rappresentata da Roma e da Numa; questa affermazione può creare qualche perplessità, ma se andiamo in Oriente, e cerchiamo il vero significato dei nomi appena riportati, ecco che possiamo individuare come la prima derivasse dal dio RA/ RE/ RI/ RO/ RU ‘Sole’, la seconda da una variante fonetica RU > < NU; per ciò andiamo a leggere l’articolo di Onofrio Carruba, tratto da “Studi micenei ed egeo-anatolici”, F. V, pag. 30/41, titolo “ANATOLICO RUNDA”; qui vengono esaminate le varianze: in eteo geroglifico abbiamo Ru(n)ti(ja), ma P. Meriggi la riporta come Ruwa, Ruwatja; in greco, più tardi, venne detta nell’onomastica Ronda (< *RU-wa-n-tha, etr. RA-ma-tha, RU-v-Fial, RU-tias); espone nell’articolo le proprie opinioni, elenca vari composti (Tarhunta-radu/ (*Rawatu/ Ruwanta), U-na-radu; Pijama-radu, SUM-ma-radu, U-ruwanta…; a pagina 39 vi è un’indicazione notevole: “ruwan in altri termini è lo stesso dell’eteo cuneiforme nuwan/ numan che si è dissimilato rotacizzando l’iniziale secondo il modello di laman da nomen, come del resto è avvenuto per es. in maruha da manuha….”.
Chiunque capisce la evidente valenza RU-wa < > NU-wan/ NU-man, RU-ma/ NU-ma; così scopriamo chi furono i primi dominatori della Roma primeva, abitavano fianco a fianco con quelli che si definivano Numani, e che vennero poi detti Sabini.
Provenivano dall’Oriente; furono preminenti rispetto agli altri gruppi etnici che abitavano intorno alle sponde del Tevere, o poco distante, compresi i Latini; le civiltà si sono sviluppate tutte intorno ai fiumi; l’isola Tiberina avrà costituito un punto di transito; nei colli intorno si saranno incontrate e scontrate le prime tribù; è facile immaginare che furono i Romani e i Sabini quelli che promossero lo sviluppo di questo centro destinato a civilizzare l’Europa; se ne avvantaggiarono poi i Latini, i quali, ad un certo punto, misero da parte i Romani, li sostituirono completamente, imponendo la loro lingua, ma conservando il nome di Roma; per questo insisto nel chiamarli Latini, anziché Romani; questi ultimi, divenuti arbitri del luogo, avevano posto le basi da cui si propagò la successiva, irresistibile diffusione della civiltà latina; che poi Roma significasse ‘mammella’, ‘fiume’… sono tante fantasie indimostrabili, non si reggono su basi religiose; le città antiche derivarono il loro nome tutte da un dio, anche il Cristianesimo fece uso di questa preferenza, nominando molti piccoli centri con termini religiosi; ma ora si pensi alla radice RA/ RE/ RI / RO/ RU; tutte indicano il ‘Sole’; non bisogna sforzarsi molto per trovare questa divinità presso gli Egizi, diffusa in varie forme; eccone alcune: vels. RA ‘colore di RA/ Rosso’, RA-th-lth < *RA-s-sas ‘raggiante’, *RE-Fa > RE-a, RE-wa-tia/ RE-zia; vels. RI-l ‘soli > anni’; RO-s-so, RO-t, RU-fus, RU-ber ‘del colore di RA’, eteo RU-wa ‘Sole’, gr. e-RU-th-rós < *RU-s-sos…
Per questo dobbiamo rimanere a RU-ma/ NU-ma (ricordando anche il NU-me, cioè un ‘dio’), e capire perché NU-ma POmP-i-lio < *PoFP-i-sjo (POP-i-na/ CUC-i-na ‘(luogo) del fuoco’) chiamato ‘Sole di Fuoco’, fu accettato ad esercitare la funzione di re; apparteneva a gruppi così affini, in periodo arcaico, che si stimavano, ogni tanto potevano fidarsi; nonostante le continue guerriglie tra i gruppi ivi stanziati, che si preparavano inconsapevolmente ad amalgamarsi per formare una grande forza espansiva e dominatrice.
Alla Valle del Lago di Velzna va restituita la gloria che gli apparteneva; ma che tuttora in molti si arrabattano con ogni mezzo per negarne l’enormità in bene ed in male della sua dispersa esistenza.
Termino con il tradurre le seguenti iscrizioni ittite, perché conservano tracce di comunanza con il tirseno, tratte da “ARCHIVIO GLOTTOLOGICO ITALIANO”, V. LXXXI, F. I, 1996: a pag. 56 (12): (k)uis sagais kisari ta LUGAL-i SAL.LUGAL=ya tarueni ‘quale segno appare (particella connettiva) al re e regina conn. diciamo’ > “riferiamo al re e alla regina il presagio che compare”; notare tarueni, paragonabile con il TLE viii 11: trin frere nethunsl “taru-/*teri- > ‘dì > recita la preghiera al dio Netuno’; a p. 59: (26) (ug)= a arhari nu hurtiyallan her-mi ‘io conn. sto conn. coppa ho “io sto in piedi e her > ho/ tengo in mano una coppa”; tirseno TLE 887: Spitus Larth Larthal svalce LXIII hus-u-r mach acnanas ar-ce maniim mlace farthne faluthras “Degli Spitu, Larth (figlio) di Larth. E’ vissuto 63 (aVils/ RI-l(s): soli > anni). Hus-/ figli cinque allevato ar-ce/ ha. In cielo in pace. La fratria delle guardie.” A pag. 67: (40): (SAL.LUGA)L URUKanis XXX DUMUMES ENMU-anti has-ta UMMA SIMA (k)is= wa kuit walkuan has-hun tuppus sekanda sunnas nu DUMUMES-SU anda ziket (s)u= us ID-a tarnas
‘La regina della città di Kanis 30 bambini in una anno has- > generò. Così ella questo (disse): ‘Quale walkuan has- > generai!’. Una cesta per la sporcizia riempì; i bambini suoi dentro mise; essi nel fiume lasciò.’
Per la radice HAR < *HAS si veda anche il “Mauale di eteo geroglifico” di P. Meriggi, a p. 42, § 52: DUMUhar-tus ‘FIGLIOdiscendente, figlio’.
Senza contare varie altre parole, nonché nomi propri, come KA-ma-nas, tirs. CA-m-na, TU-wa-tis > TI-te ‘TI-to’, RU-WA-tias, ( da V. Pisani, LIA, pag. 324, Retico: RI-ta-li esi KAS-t-ri mlapet “a RE-tia e a CAS-to-re si offre”; mlapet < *mulaweti, tirs. muluveni…), tirs. RA-ma-tha ‘Solare’, MU-wa-ta-li-n (Acc.), MU-wa-ta-li-sa (Gen.), tirs. ME-(we)-te-le ‘Metello’ (MU ‘dio del Tempo’: ME-se…)…; DUMU-las > *ha-ti-las ‘ha-ti ‘DO-mus/ di casa > fratello’, tirs. A-t-r-sr ‘famigliari/ fratelli’, gr. AD-e-lPHÓs < *AT-e-los, F > PH infisso, come in DelPHoí < *DEL-o-si ‘Lucente’, del-ó-o ‘luce > faccio vedere’, delPHús < thêlus ‘utero’.
Ecco infine una iscrizione del luogo, velsinia autentica: (TLE, 900; cippo): selvans sanchuneta cvera “(A) Silvano ordinatore. Per grazia.”